Circa 300 rifugiati hanno deciso di lasciare la Thailandia e tornare a casa, nel sud est del Myanmar. Tra di loro c’è anche una famiglia di ben quattro generazioni.
Pree e Dee Noe sono bisnonni, e non vedono l’ora di fare ritorno a casa dopo aver trascorso ben tre decenni nel nord ovest della Thailandia.
“Quando siamo fuggiti dal Myanmar la situazione era molto difficile,” racconta Pree, 82 anni, rifugiata di etnia Karen. “C’erano combattimenti continui. Vivevamo nella giungla e dovevamo continuare a spostarci.”
La coppia è arrivata in Thailandia dopo essere fuggita dal conflitto tra gruppi etnici armati e l’esercito del Myanmar, e fino a oggi è stata tra i circa 96.000 rifugiati – per lo più di etnia Karen, Karenni e Birmana – che vivono in nove insediamenti temporanei lungo il confine tra Thailandia e Myanmar.
Insieme alla loro famiglia, Pree e Dee Noe si sono uniti a più di 300 altri rifugiati che hanno scelto di fare ritorno in Myanmar nel mese di luglio. La famiglia verrà inizialmente ospitata dalla sorella e da altri parenti di Pree nello stato montuoso di Kayin, nel sud est del paese.
Tra il 2016, quando il programma di facilitazione del rimpatrio volontario è stato approvato dai governi di Thailandia e Myanmar, e il febbraio di quest’anno, più di 700 rifugiati hanno fatto ritorno in Myanmar. I governi dei due paesi coinvolti nell’attuazione del programma sono sostenuti dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, da altre agenzie dell’ONU e organizzazioni partner.
In seguito all’esodo iniziato a metà degli anni Ottanta, i rifugiati si sono stabiliti in insediamenti informali, più tardi diventati nove comunità, più ampie e gestite dalle autorità thailandesi, mentre l’UNHCR si è occupato di garantire l’accesso all’assistenza legale e l’iscrizione all’anagrafe. L’Agenzia sostiene inoltre programmi di protezione per i minori e attività di prevenzione e contrasto della violenza sessuale e di genere.
“Molti rifugiati vivono nei campi da decenni,” spiega Atsuko Furukawa, Senior Field Coordinator di UNHCR nella Provincia di Tak, sottolineando inoltre che il protrarsi di tale situazione impedisce alle nuove generazioni di realizzare pienamente il proprio potenziale in maniera dignitosa.
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“Il rimpatrio volontario è una delle soluzioni, ma non è l’unica. L’UNHCR lavora a stretto contatto con i governi di Thailandia e Myanmar per identificare le soluzioni migliori alla situazione dei rifugiati, come l’accesso a opportunità di lavoro in maniera legale in Thailandia, a determinate condizioni.”
L’UNHCR assiste nel rimpatrio volontario solamente quelle famiglie che si rivolgono spontaneamente all’Agenzia per fare ritorno nel proprio paese. Prima del rimpatrio, l’UNHCR e le organizzazioni partner effettuano valutazioni nel paese di ritorno relativamente alle condizioni esistenti e alle strutture disponibili. Informazioni oggettive e imparziali sono così fornite a tutti i rifugiati che hanno fatto richiesta di rimpatrio in modo da permettere loro di scegliere se fare effettivamente ritorno a casa.
Pree afferma che la sua famiglia, con cui ha vissuto nel campo di Mae La insieme ad altri 35.000 rifugiati, si è sempre sentita al sicuro e trattata bene in Thailandia. Tuttavia, consapevole degli anni trascorsi lontano da casa e avendo saputo dalla sorella che la situazione nella regione da cui è fuggita sta migliorando, non vede l’ora di tornare. “Non sarà tutto perfetto, ma la gente dice che la situazione è migliorata.”
“Voglio tornare in Myanmar per trascorrere lì il tempo che mi resta da vivere,” spiega Dee Noe, 96 anni. “Posso fare affidamento sulla mia famiglia, che alleverà animali per guadagnare qualcosa… è importante anche per i bambini, vivere finalmente nella propria terra.”
Mentre Dee Noe, Pree e la loro figlia Mu Htway, 41 anni, sono nati in Myanmar, i loro cinque nipoti e la bisnipote sono nati nel campo di Mae La, il più grande dei nove insediamenti temporanei.
“Sono contenta di aver potuto vivere in Thailandia tutti questi anni ma in quanto rifugiati non possiamo fare molto, dato che la nostra libertà di movimento è molto limitata,” afferma Mu Htway. “Non abbiamo opportunità di sostentamento.”
Mu Htway spera che, lavorando duramente, potrà garantire maggiori libertà e opportunità ai suoi cinque figli in Myanmar. È inoltre contenta del fatto che la famiglia potrà presentare richiesta di cittadinanza in modo da potersi muovere liberamente, lavorare e accedere a servizi quali cure mediche e istruzione.
Suo figlio Pa Ta Ba, 22 anni, nato nel campo di Mae La e ora padre, a sua volta, di una bambina, concorda con la madre sul fatto che l’intera famiglia starà molto meglio in Myanmar, soprattutto grazie all’accesso a opportunità di lavoro.
“Mae La mi mancherà, ho vissuto qui per molto tempo e sono affezionato. Sono nato e cresciuto qui, non conosco nient’altro,” spiega il giovane. “Ma sono contento di seguire i miei nonni, sono convinto che le cose andranno meglio e grazie alla cittadinanza saremo più liberi.”
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