Noori Shtaat, un ingegnere elettronico di 63 anni, fuggì dalla Siria all’inizio del 2016, seguendo un percorso che la sua famiglia aveva già intrapreso diversi mesi prima verso la Germania. Quando raggiunse l’Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, il confine con la Serbia era chiuso e Noori Shtaat rimase nel Paese per altri 16 mesi in attesa di ricongiungersi con i propri cari.
Quando la famiglia di Noori decise di fuggire dalla città di Idlib a fine settembre 2015, i risparmi bastavano per sei persone soltanto, per cui Noori fece partire sua moglie, le tre figlie e i due figli, e rimase ad aspettare un’altra occasione per poterli raggiungere.
“Il viaggio era molto difficile e pericoloso. Camminavamo tra le pietre, gli alberi, in acqua, sotto la pioggia per quattro o cinque ore. La notte era molto scura. Non riuscivamo a vedere la strada. Caddi molte volte. Dissi agli altri di lasciarmi. Mi sedetti a terra, non riuscivo a proseguire. Un uomo del gruppo che non conoscevo mi aiutò e mi portò in spalla. Fu davvero difficile, molto più del viaggio in mare”.
Una volta arrivato nella Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, Noori si registrò presso il centro di accoglienza e transito di Vinojug e continuò in treno verso il confine settentrionale con la Serbia. “Andammo direttamente al confine. Lì la polizia ci disse di fermarci e aspettare. Arrivarono auto dell’UNHCR e di altre organizzazioni e ci distribuirono del cibo. Mentre mangiavamo, iniziò a piovere. Era notte, pioveva, era buio e faceva freddo. C’erano molte donne e molti bambini,” ricorda Noori, cercando di non essere sopraffatto dalle lacrime. “Non c’era scelta: non potevamo né ritornare al campo di Tabanovce né andare in Serbia.
Dopo qualche ora sono arrivati a portarci alcune tende. Ero seduto lì, non potevo fare nulla. La frontiera era chiusa davanti a me.
Per 20 giorni consecutivi, siamo rimasti alla frontiera, con la speranza che ci facessero passare.”
Noori è solo una delle tante persone colpite da ciò che è accaduto a partire dal 7 marzo 2016, quando i Paesi situati lungo la rotta dei Balcani occidentali hanno chiuso le frontiere ad alcune nazionalità, tra cui quella siriana. Nonostante la prospettiva di una prolungata separazione dalla sua famiglia, Noori rimase ottimista. “Dissi a me stesso: ‘Ho diritto al ricongiungimento familiare. Devo essere paziente. È normale”. Poi iniziai a studiare tedesco perché la mia famiglia è in Germania. È molto duro stare lontano da loro. Anche loro sono molto stanchi, ma la tecnologia ci ha aiutato a rimanere in contatto”.
Quando Noori cercò di ricongiungersi con i propri cari presentando una richiesta ufficiale di ricongiungimento, sorse un ulteriore problema. Siccome non avrebbe mai pensato di lasciare la Siria, non aveva un passaporto. Fortunatamente l’Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia gli rilasciò un passaporto temporaneo per poter viaggiare e raggiungere la sua famiglia. Subito dopo il colloquio per la procedura di ricongiungimento, è arrivata la notizia che Noori aveva ottenuto il visto e a luglio sarebbe partito per la Germania. Sebbene felice di ritrovare i propri cari, Noori ha espresso tutto il suo apprezzamento per il Paese che è stato la sua casa per oltre un anno. “Vorrei ringraziare [l’Ex Repubblica Jugoslava di] Macedonia perché ci ha protetto e ci ha permesso di vivere bene. Va tutto bene. Inoltre mi ha dato il passaporto, che è la cosa più importante”. La famiglia di Noori si è stabilita in Germania. “Ognuno dei miei cinque figli sa cosa vuol fare: trovare lavoro, andare al college, a scuola. La maggiore delle mie figlie, Ragad, è ingegnere civile e sta iniziando un tirocinio in un’azienda per poter lavorare lì. Una settimana fa ha superato l’esame di lingua con i voti più alti, quindi sono felice”. Dopo una lunga separazione, Noori e la sua famiglia possono finalmente ricominciare a vivere insieme, come una famiglia.
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